Con la preghiera il Santo Padre ha “sostenuto” come Mosè sul Monte chi in basso lotta una battaglia. Nella messa da Casa Santa Marta del 18 aprile sono stati ricordati medici e infermieri che operano presso le strutture residenziali per persone disabili spesso gravi e gravissimi. Il dono per questi Samaritani è il sorriso degli “scartati”: è un dono di Dio “mediato” da una relazione che ricorda quanto la vita sia preziosa e non un peso anche in questo tempo di Covid-19. Anche quando c’è fatica fisica il cuore ama, come un genitore ama i propri figli. Tra gli ospedali e le famiglie, tuttavia, esiste un “sistema parallelo”, una sorta di terza gamba che quotidianamente e da secoli si prende cura delle persone fragili, il cui stato di cronicità non prevede la presa in carico da parte degli ospedali.
Nelle Residenze Sanitarie e nei Centri Diurni vivono quotidianamente migliaia di persone. Che cosa sarebbe della loro vita e delle loro famiglie senza questa componente di solidarietà operosa e tenace nell’offerta di sostegni? Naturalmente anche in questi luoghi, più nascosti e discreti, il Coronavirus ha agito con la sua spietatezza, sia tra i residenti, in qualche caso già invecchiati e fragili, sia tra gli operatori, provocando contagi, positività e decessi. Non basta snocciolare numeri: è questo il tempo di raccontare storie, che narrano non la parola digitale del contagio o della guarigione, ma la parola analogica degli incontri e dei gesti che salvano.
È infatti straordinario quanto sta avvenendo in questi giorni, anche se non trova grande spazio nei media. Ci sono operatori medici e infermieri, sacerdoti, religiose e laici, che rischiando la loro vita sostengono le persone, utilizzando al contempo le tecnologie per mantenere vivo il rapporto tra i residenti e le famiglie, generando momenti toccanti di reciprocità, di ascolto e di preghiera. Alcune persone con disabilità che vivono in queste strutture hanno convertito le loro attività occupazionali in laboratori per la produzione di mascherine, sopperendo alle necessità dei loro operatori e non solo, diventando, per così dire, da “assistiti” a “protettori”.
Ci sono centinaia di operatori dei centri diurni che quotidianamente, per sostenere le famiglie che hanno dimostrato grande forza e capacità di adattamento e iniziativa, le raggiungono a casa, o in modalità domiciliare o più spesso in remoto con il sostegno delle tecnologie, con la creatività di attività che sollevano le famiglie e mantengono attive le persone con disabilità, pregando assieme, cantando, facendo attività ludiche e motorie o altro ancora, perché la solitudine fa paura. Ci sono centri per persone con disabilità dove l’attività agricola si è evoluta nella possibilità di consegnare a domicilio generi di prima necessità alle famiglie vicine, con il permesso delle autorità locali.
Dai primi mesi di marzo sono stati realizzati moltissimi sussidi, testi, video in vari linguaggi per consentire alle persone con disabilità di pregare in casa e di pregare con gli altri. Un grande contributo di prossimità e di creatività messo a disposizione dalla Chiesa italiana sul sito https://chiciseparera.chiesacattolica.it. L’antivirus è pregare insieme, senza confini!
Viviamo ancora in un tempo di sofferenza, in cui sta emergendo sempre più una grande crisi antropologica: ogni vita è vita sempre? La persona non è più al centro. Si è imposta per anni un’antropologia funzionalista per la quale la dignità della vita è data dalla capacità funzionale. C’è tanto da lavorare... Abbiamo visto, grazie a chi si è fatto carico delle “periferie”, che le persone con disabilità non sono in realtà dei cronici assistiti, ma una componente preziosa della società di oggi e di domani, in grado di costruire “comunità di prossimità” assieme ai cosiddetti normali. Questo tempo è un Kairos, una grande scuola di Sapienza in cui ci si educa al “noi” (sono forse custode di mio fratello? Sì di ogni fratello): questa è la comunità! Ci salviamo insieme! È un tempo di rinascita e “relazione”.
“Amare sino alla fine” è una cosa grande, che va oltre tutti noi. Come non pensare, in particolare, alle famiglie con figli con disabilità e agli operatori nelle strutture residenziali? “Amare sino alla fine” può suggerire anche una riflessione sulla dimensione temporale, cioè fino alla fine dei giorni, finché c’è una vita. Dobbiamo servire le persone al meglio tutti i giorni, che questo sia un giorno di benessere o l’ultimo giorno della vita.
Amare fino alla fine della vita è un atteggiamento di profondo rispetto per la vita.
“Amare sino alla fine” può anche far riferimento al modo di amare, cioè servire l’altro fino in fondo, con tutti i modi che abbiamo, riconoscendo tutto l’uomo e provando a dare tutti noi stessi per rispondere alla specificità dell’altro in ogni modo. “Amare sino alla fine” in questi termini ci apre allo stupore per l’altro, vedendolo oltre i suoli limiti e disabilità e scoprendoci, spesso inaspettatamente, capaci di armonizzare i nostri comportamenti ai bisogni dell’altro.
“Amare sino alla fine” può, infine, far riferimento all’intensità dell’amare: un atteggiamento che non conta, non misura, non calcola ma si preoccupa di volere il bene dell’altro dando tutto ciò che si possiede, amando in modo disinteressato e incommensurato. Servendo l’altro solo per il desiderio di dargli, sino alla fine, ciò che si ha. Possiamo scegliere se essere come questi samaritani: “strumenti” a fianco degli “scartati” e degli “invisibili”, amando sino alla fine ogni uomo o lamentandoci e ripiegandoci, sognando l’isola che non c’è.
FONTE: VaticanNews